Guitar Player dedica la sua uscita “natalizia” a John Frusciante.
In questa terza parte che abbiamo tradotto per voi, il chitarrista parla delle emozioni provate sul palco, delle differenze tra i due dischi pubblicati con la band nel 2022 e sul modo in cui, da giovane, ha sviluppato il proprio stile musicale.
Intervista di
Richard Bienstock
Foto di
Jonathan Weiner
Traduzione per VQ.it a cura di
Dario Giannullo, Francesco Colinucci, Francesco Generale, Miriam Mechelli e Vincenzo Fasulo
Nell’aprile 2022 i Red Hot Chili Peppers hanno pubblicato Unlimited Love, il loro dodicesimo lavoro in studio e, cosa forse più importante, il loro primo con John Frusciante, probabilmente il loro chitarrista più amato dai fan, in più di 15 anni. Se alcuni ascoltatori si sono sentiti come se avessero aspettato una vita per questo album della reunion – ed è abbastanza possibile che per alcuni più giovani sia stato effettivamente così – non hanno dovuto resistere troppo a lungo per il successivo.
Piuttosto, siamo solo a una manciata di mesi più tardi e i Chilis – che includono anche il cantante Anthony Kiedis, il bassista Flea e il batterista Chad Smith – hanno dato seguito alle 17 tracce da oltre un’ora di Unlimited Love con le similari 17 tracce da oltre un’ora di Return of the Dream Canteen (Warner Records).
Il nuovo disco è realizzato con il materiale registrato durante le stesse sessioni del suo predecessore, agli Shangri-La Studios del produttore Rick Rubin a Malibu, California, con Rubin al timone. Al tempo, Frusciante era tornato solo di recente nella band per un secondo turno di servizio. Dopo aver cementato la sua eredità con performance da star negli anni ’89 in Mother’s Milk e il rivoluzionario Blood Sugar Sex Magik del 1991, ha lasciato la band per la prima volta nel 1992, tornando nel 1999 per i tre sforzi incredibilmente riusciti e lodati dalla critica, compreso quello di quell’anno, Californication, che ha venduto più di 15 milioni di copie.
Dato che questa volta i Chili Peppers sono entrati in studio con un mucchio di idee e ne sono usciti con non uno, ma due nuovi album – doppi album per inciso – si può ipotizzare che il ritorno di Frusciante abbia portato molti frutti creativi freschi. Come la band si è messa in viaggio per suonare la nuova musica e i classici sul palco, questo rinnovamento è solo continuato.
«A parte uno o due spettacoli in posti più piccoli, tutti questi concerti hanno avuto una dimensione che non abbiamo mai avuto prima», dice Frusciante. «Abbiamo suonato in stadi che sono generalmente da tipo 40 o 60mila persone a notte. Sono molte persone e l’energia è molto intensa. C’è tanta felicità generata dal pubblico che a volte è travolgente».
Tuttavia, il modo di suonare la chitarra di Frusciante è rimasto solido come una roccia e incrollabile, per non dire incredibilmente fantastico. Adesso ha 52 anni, e mostra lo stesso stile meravigliosamente idiosincratico nel suonare: il lavoro ritmico elastico e sinuoso; gli accordi alternativamente fluidi e furiosi; gli assoli pazzeschi carichi di feedback e acid-fuzz; le ispirate improvvisazioni; e le quasi telepatiche interazioni strumentali con Flea e Smith – quello che lo ha reso un eroe della chitarra alt-rock alla tenera età di 21 anni. Ma tutto ciò ora sembra sia intensificato che sconfinato. C’è una maggiore concentrazione e intensità, e anche quella che sembra essere una maggiore disponibilità a lasciarsi andare e portare il suo modo di suonare fino al limite. «E’ bello quando ti sembra che qualcuno si stia mettendo in gioco, correndo un rischio e resistendo a malapena, e potrebbe diventare terribile in qualsiasi momento se perdesse la testa», dice Frusciante. «Adoro l’apertura di ciò».
In un’ampia intervista con Guitar Player, Frusciante ha parlato di quell’apertura, così come dei molti aspetti del suo stile sonoro e del suo regime di pratica che hanno contribuito a renderlo il musicista che è oggi. Ci ha anche portati all’interno di Return of the Dream Canteen e alla creazione di alcuni dei suoi brani più importanti, e ha parlato di come impiega la struttura tecnica e la conoscenza della teoria al servizio della creazione di un’emozione in collegamento con il suo strumento. «È la vulnerabilità, che penso sia molto attraente», dice.
Da quando sei tornato nei Red Hot Chili Peppers, la band ha scritto e registrato quasi 50 canzoni e pubblicato due album. Si tratta di una quantità significativa di lavoro in studio. Ma sei anche tornato sul palco con la band. Com’è stato esibirsi di nuovo con Anthony, Flea e Chad?
«È un’esperienza davvero diversa, grazie alle dimensioni degli stadi. Ti tira fuori molto, soprattutto perché sono tornato nella band con uno spirito di donazione. Volevo davvero suonare per la gente, capisci? Ma quando abbiamo fatto i dischi, era più un suonare per gli altri ragazzi del gruppo, o suonare qualcosa che avrei voluto suonare per i miei amici».
«Ma andando sul palco, ci sono volte in cui vado al microfono per cantare e cantare, e contatto gli occhi con le persone, e vedo due persone chiaramente innamorate e davvero felici di essere lì, o un ragazzino molto felice, o una ragazza che salta su e giù, o un gruppo di ragazzi che salta in cerchio perché sono contentissimi che abbiamo suonato una canzone particolare che a loro piace molto. A volte in quei momenti mi viene da piangere. Oppure mi sento soffocare e non riesco a cantare, devo chiudere gli occhi e fissare il suolo per riprendermi»
È un momento intenso.
«Ci sono molti momenti emotivi di questo tipo. E non so se nella band siamo mai stati così gratificati dall’essere presenti l’uno con l’altro. Perché abbiamo alle spalle una vita di momenti significativi in cui abbiamo suonato insieme. È molto importante per noi. Ci sentiamo tutti molto sostenuti l’uno dall’altro».
Un aspetto davvero interessante di questi concerti è che tu, Flea e Chad Smith cominciate il concerto con un’improvvisazione strumentale. Quando hai a che fare con il pubblico in location di queste dimensioni, l’obiettivo di una rock band è mangiarsi il palco e far strappare i capelli ai fan. Però voi vi approcciate alla musica in una maniera più aperta e creativa.
«Sì. È un buon modo per collegarsi davvero con la particolare energia che c’è lì quella sera. Perché ogni pubblico è differente e ogni location si percepisce diversamente, e anche noi stessi abbiamo un animo differente ogni sera. Perciò, improvvisando proprio all’inizio, ci connettiamo con quello che è lo spirito del momento, e spesso è questo approccio a guidare il resto dello show. Sai, nel concerto in generale c’è moltissima spontaneità. Ogni volta che c’è un assolo, che sia in una canzone che non suoniamo spesso o in una che suoniamo ogni sera, mi sento molto creativo in quei momenti. Ogni attimo sul palco è gratificante».
Return Of The Dream Canteen è stato ricavato da canzoni registrate nella stessa sessione di Unlimited Love. Quando eravate in studio, avevate idea di quali canzoni alla fine sarebbero finite in quale disco?
«Sicuramente io ci pensavo molto, ma alla fine contava soprattutto in quale ordine decidevamo di mixare le canzoni. Io avevo la mia personale idea su cosa sarebbe stato bene in un buon secondo album e cosa in un buon primo album, ma non ne ero così sicuro da sollevare il problema e dire “guardate ragazzi, prima che mixiamo qualsiasi cosa, prendiamo una decisione qui e adesso”. Mi ero ripromesso di farlo, ma non l’ho mai fatto. Mi è sembrato che sia andata che a volte Anthony suggeriva di mixare prima una determinata canzone, a volte ero io a farlo, a volte magari era Flea. E ci fidavamo di questa cosa, per cui quello che sarebbe stato, sarebbe stato. Non c’era davvero una netta consapevolezza di quale dovesse essere la differenza tra i due album. Detto ciò, c’erano alcune canzoni che mi sembrava giusto tenere in serbo per il secondo album. Tipo Eddie: quella desideravo davvero metterla nel secondo album, perché pensavo potesse essere buona per far impazzire il pubblico. E poi non volevamo che nel primo album ci fosse tutta la roba migliore e nel secondo solo ciò che era avanzato. Perciò ci sono state alcune canzoni per le quali, nonostante qualcuno volesse mixarle subito, ho detto “questa la conserviamo”».
Ora che entrambi i dischi sono usciti, vedi qualche caratteristica peculiare per ognuno di essi?
«Prima che cominciassimo a mixare Unlimited Love e Return Of The Dream Canteen, la band aveva l’intenzione di massima di riprendere le basi essenziali con il primo disco, e l’idea che il secondo fosse quello più eccentrico e avventuroso. In molti casi però, ci siamo contraddetti conservando alcuni pilastri per il disco numero due e mettendo alcune delle cose più inaspettate nel disco numero uno. Abbiamo deciso a priori quali sarebbero state la prima e l’ultima canzone di ogni disco, ma per il resto abbiamo deciso man mano».
«Per come sono andate le cose, sento Return Of The Dream Canteen come un disco più divertente, e credo che tocchi vette più estreme. Quest’ultimo ha qualcosa di più colorato, in un certo senso ‘luminoso’. Non che non abbia sezioni oscure. Però, a me sembra più oscuro Unlimited Love».
«Il nuovo album ha forse anche più elementi sorprendenti. Ce ne sono un po’ anche nel primo, ma soprattutto nella seconda metà del secondo, ci sono probabilmente più sintetizzatori e drum machine e cose del genere di quanto le persone potevano aspettarsi da noi. E sembra anche più estemporaneo e spontaneo. C’è una certa qual sensazione di rilassatezza e distensione che distingue Return Of The Dream Canteen da Unlimited Love».
Hai citato la canzone Eddie di Return Of The Dream Canteen, che è chiaramente un tributo a Edie Van Halen, specialmente per ciò che riguarda il testo di Anthony. Mentre la musica non riflette particolarmente il sound dei Van Halen, tu hai incorporato alcuni orpelli dichiaratamente ‘à là EVH’ [Eddie Van Halen, ndt] – tapping, lavoro sulla leva del vibrato, fraseggi unici. Che intenzioni avevi nel comporre quella canzone?
«Quando siamo in studio, in mezzo alle registrazioni, sono sempre lì che faccio cose, tipo il tapping a due mani. I tecnici sentono questa roba tutto il tempo; suono robe molto veloci durante le pause. Ma quando si torna alle registrazioni, faccio quello che credo sia giusto per la canzone, e nella maggior parte dei casi ciò non implica suonare molto veloce. Ma è comunque qualcosa che mi piace fare. Comunque, ti dico che fare quell’assolo è stato un fottuto viaggio. Ed è stato l’ultimo assolo che ho fatto di tutti gli assoli dei 48 pezzi che abbiamo inciso. L’ho tenuto per la fine, perché con l’idea di fare una canzone su Eddie Van Halen, stai praticamente dicendo alle persone “pensate a Eddie Van Halen”. E quindi quando si arriva a questo lungo assolo di chitarra in coda, stai dicendo tipo “e ora guarda qua!”. Non mi piaceva l’idea di questa cosa. Avevo anche considerato di tagliare completamente l’assolo, perché non sapevo come approcciarmi ad esso. Ci avevo lavorato per un po’ e non ero soddisfatto di niente di ciò che avevo fatto. O andavo troppo nella direzione di Eddie Van Halen, dove c’era troppa roba e troppo tapping a due mani e non suonava per niente come il mio stile, o andavo a ruota libera e suonava solamente come me…ma in una canzone su Eddie Van Halen».
Come hai trovato un compromesso?
«Ho semplicemente spento la mente e ho smesso di pensarci. Ho smesso di essere consapevole che la canzone fosse su Eddie Van Halen e ho fatto ciò che era naturale. Stavamo registrando e ho fatto una pausa di 15 minuti. Quando sono tornato ho fatto tutto in una take. Se è presente Eddie lo è per l’amore che ho per lui da quando avevo 8 anni, cose come il tapping veloce e l’accentuare note diverse con l’uso della leva vibrato. Ha usato molto queste cose. E poi ci sono anche le parti del suo modo di suonare che non comprendono la velocità, queste sono davvero importanti per me, suonare in modo spontaneo oppure quando senti dei feedback perché registrava le sue parti nella stanza in cui erano gli amplificatori».
Una cosa che mi ha sempre colpito del tuo modo di suonare è l’uso degli spazi. Si sente in Eddie e Shoot Me a Smile sul nuovo album e anche in dei classici della band come Scar Tissue e Californication. Un’altra è Otherside dove suoni due o tre note. Da dove viene questo approccio?
«Viene dal provare a capire come far suonare Flea e Chad il meglio che possono. Per Mother’s Milk cercavo di riempire più spazio possibile, sembravo molto occupato. Non ai livelli di Flea, il suo modo di suonare fa sì che sia complesso senza farlo pesare, suona come se sia sempre al servizio della canzone. Dopo aver fatto quel disco sentivo di non essermi messo a servizio delle canzoni e dei miei compagni come avrei potuto».
Poi questa cosa ha iniziato a cambiare per il successivo Blood Sugar Sex Magik…
«È anche dovuto al fatto che Rick Rubin, quando ha iniziato a produrci, aggiungeva idee agli arrangiamenti. Tipo “facciamo la prima strofa senza chitarra” o “niente basso nella seconda strofa”. Veniva dall’esperienza nell’hip hop ed essenzialmente silenziava gli strumenti in determinate sezioni. Questo è stato d’ispirazione per me perché stavo già andando in una direzione in cui suonavo meno e vedevo quanto questo facesse suonare meglio la band. Così sono arrivato al punto dove vedevo davvero l’importanza musicale dello spazio di ogni tipo, che fosse la distanza tra un punto di una battuta e un altro punto sempre della stessa battuta o la distanza tra due suoni, oppure creando un accordo formato da una nota suonata da me e una suonata da Flea con il basso. Sembrava che il suono della band fosse più unito. E, onestamente, agli altri piacque quando iniziai a suonare così, mi sentii supportato».
Cosa ha ispirato la tua attrazione per i toni puliti?
«Molte delle basi del mio modo di suonare la chitarra risiedono, stilisticamente, nella musica che ho amato da bambino e che ho sempre continuato ad amare. C’è tanto post-punk, o quello che oggi chiamiamo post-punk. Allora la chiamavamo new wave. Ma si tratta di gente come Ricky Wilson dei B-52 e Matthew Ashman dei Bow Wow Wow. Di band come i Cure, Scritti Politti e i Minutemen. I Pop Group erano parecchio strani, ma penso che fossero dei veri ideatori e il loro stile di chitarra è davvero buono. Tutte queste persone e queste band hanno fatto cose molto potenti con i toni puliti. Ascolti D. Boon suonare nei Minutemen e capisci veramente di cosa sto parlando. Farà un assolo e il tono sarà il più pulito possibile. Ma ha più potere di un chitarrista heavy metal, semplicemente perché ci tiene tanto e ci mette davvero l’anima e il sentimento. E riguardo a Ricky Wilson, il primo concerto a cui io abbia mai assistito era in un gran posto, di tipo 5000 posti a sedere, ed era dei B-52. Era il 1983. E il suo modo di suonare la chitarra era semplicemente incredibile. Rendeva felici le persone. E a me interessa molto la reazione emotiva. Per me è più importante raggiungere le persone piuttosto che voler dire “guarda quanto sono grosso, duro e macho”».
Detto ciò, sai anche tirar fuori toni molto spessi e nodosi quando la canzone lo richiede. Gli accordi che suoni nel ritornello di Reach Out, nel nuovo album, ne sono un buon esempio. Oppure, per quanto riguarda gli assoli, la frenesia di fuzz e feedback in The Heavy Wing, da Unlimited Love. Come hai ottenuto queste sonorità?
«Molte volte usando più di un pedale di distorsione contemporaneamente. Generalmente tengo acceso un pedale di distorsione Boss – quello giallo [OD-3 OverDrive] e quello arancione [DS-1 Distortion] – e anche un Electro-Harmonix Big Muff o quel pedale di distorsione MXR marrone [il Super Badass Variax Fuzz]. Sembrava che li usassi un sacco nei dischi. Non ricordo precisamente quali pedali ho usato in quali parti, ma direi che spesso combino diverse distorsioni e toni fuzz. Quindi si tratta di questo, e anche di avere i Marshall ad altissimo volume nella stessa stanza. Perché anche quando non stai ottenendo dei feedback, quando sei di fronte ad un amplificatore rumoroso c’è una specie di feedback che si sviluppa e che contribuisce a dare il senso di un suono super esplosivo. Credo che il fatto che io abbia registrato quasi tutti gli assoli distorti stando nella stessa stanza degli amplificatori contribuisca al tono in maniera unica».
Perfino con tutta questa attenzione alla tecnica, al suono e all’attrezzatura, il fulcro del tuo stile chitarristico è nel contenuto emotivo. Come riesci a suonare col cuore piuttosto che col cervello?
«Oddio, è una bella domanda, a cui è difficile dare una risposta. Sento che tutto quel conflitto sia nato in me tra i 14 e i 18 anni d’età, dopo i quali ho imparato la lezione. E per fortuna il mio cervello si sviluppava mentre imparavo quella lezione. Ma durante quegli anni d’apprendimento, ho avuto qualunque tipo di conflitto».
«Una volta arrivato al punto in cui sentivo di poter suonare più o meno qualsiasi cosa mi andasse di imparare, fu un periodo davvero eccitante per me. Ma c’era anche questa domanda nella mia testa, “cos’è che ho da dire?”, perché ero innamorato di tutte queste persone diverse che facevano tipi di musica enormemente diversi, e di chitarristi che erano anch’essi così diversi l’uno dall’altro»
«E mi sembrava che ognuno di essi avesse il suo piccolo spazio nel dire qualcosa di differente rispetto agli altri. Anche persone tutto sommato simili, come Randy Rhoads e Eddie Van Halen, per me stavano esprimendo cose completamente diverse».
«E così, quando ero un adolescente, mi preoccupavo di queste cose, “cosa ho da dire io di diverso da tutti gli altri?”»
Che ruolo ha giocato la teoria dell’apprendimento in tutto questo?
«Comprendere la teoria era per me un modo per essere in grado di analizzare le cose che mi piacevano. Quindi se sto suonando, ad esempio, l’assolo di chitarra di Something dei Beatles e ci sono alcune note che [George Harrison] suona che mi fanno pensare “wow, a cosa diavolo stava pensando? Perché è passato da quella nota a quell’altra? Perché è così bello quando lo fa?” – sono in grado di vedere quelle note in relazione agli accordi, agli intervalli e a tutto il resto, e di capirlo».
È interessante che tu abbia utilizzato la teoria come mezzo per attingere dalle tue emozioni. È tipo il contrario di ciò che pensano molte persone, ovvero che un affidamento alla teoria può tradursi in un approccio clinico e freddo allo strumento.
«Beh, io penso che molte volte le persone vogliano sembrare sicure coi loro strumenti».
«Per me, invece, la vulnerabilità è una delle cose più accattivanti che si possano ascoltare in un pezzo musicale. E ho realizzato di sentirmi come se stessi dando una parte maggiore di me stesso quando ero vulnerabile con lo strumento»
«Ciò si collega all’uso di toni puliti, al fare cose sottovalutate, a tutte queste cose. E credo che sia universale. Pur ammirando la fiducia in una persona, nel profondo sappiamo tutti che la vulnerabilità è una delle cose più difficili da raggiungere. Ed ogni piccolo grado di cui puoi permetterti di essere più vulnerabile, con i tuoi amici, con il tuo partner o col tuo modo di suonare, è una delle cose più forti che puoi fare».
Direi che è un filo conduttore della maggior parte dei chitarristi che hai citato come tue influenze giovanili.
«Riguardo ai miei pensieri di quando ero bambino su cosa dovevo dire alle persone attraverso il mio modo di suonare la chitarra, sento che molto di quanto ho finito per dire abbia a che fare con la vulnerabilità. Ha a che fare col supportare gli altri e anche col mettersi in gioco in una maniera che talvolta fa paura. Ti sembra di avere il cuore troppo esposto e che le persone potrebbero calpestarlo, ma ti sembra anche la cosa ti stia bene, mi capisci?».