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Bass Magazine (Agosto 2023), parte 1 di 2: Flea, musicista e intrattenitore

La nota rivista per gli amanti delle quattro corde dedica la copertina del numero di agosto a Flea, che ancora una volta porta alla luce aneddoti sugli inizi dei Red Hot Chili Peppers e punti di vista sempre nuovi e interessanti su quello che è il presente della band. Lo staff di V.Q.it ha tradotto per voi l’intervista (trovate l’originale a questo link), dividendola in due parti. In questa prima parte, la nostra Pulce preferita ci parla dell’esperienza fisica degli show dei peperoncini, di ciò che spera di trasmettere ai fan e di come il rapporto coi compagni ha influito sul loro songwriting.

A cura di Francesco Generale e Vincenzo Fasulo

Hai sempre sostenuto di non essere solo un bassista, ma anche un intrattenitore. Cosa significa questo per te al giorno d’oggi?
Io sono un intrattenitore. La maggior parte dei musicisti che apprezzo non ti danno solo un’esperienza cerebrale o emozionale, ma anche un’esperienza fisica e viscerale. Il modo in cui suono, anche quando nessuno mi guarda, è il modo in cui si muove il mio corpo – e dal vivo lo esagero in maniera teatrale. Magari non saltello mentre mi esercito a casa, ma di sicuro lo faccio in studio. Sono sempre consapevole del ritmo, e adoro suonare dietro la cassa e muovere il mio basso in tutto ciò che accade intorno a me. Amo J Dilla [produttore e rapper, n.d.r.] per come ha posizionato e spostato tutto avanti e indietro nei suoi beat, ma amo anche gli aggressivi musicisti punk-rock che suonano in anticipo rispetto al ritmo. Mi piacciono i professionisti da studio che si siedono nel bel mezzo della cassa senza sbagliare una singola volta, come Jamerson e Duck Dunn. Sono al corrente di cose del genere – ma per quanto mi riguarda, il modo in cui riesco ad articolare quei sentimenti musicali è fisico. Viene da un’unione olistica di mente, corpo e spirito che è essa stessa parte della performance. E soprattutto, è una roba tipo “hey amico, facciamo del fottuto rock!”. Mi capisci?

Flea fotografato da Sandy Kim per la copertina di Bass Magazine.

Sei stato in viaggio per gran parte degli ultimi due anni e continuerai ad esserlo ancora per diversi mesi. Quanto è diverso andare in tour ora rispetto all’inizio della tua carriera?
È divertente perché ho abbandonato i giorni in cui il tour era una festa senza sosta ormai molto tempo fa. Adesso è più un’esperienza da monaco per me. Faccio le mie passeggiate, visito i musei, altrimenti sono in una stanza ad esercitarmi e a meditare, facendo tutto il possibile per prepararmi. Prendo il tour e gli show molto seriamente. Suoni finché non crolli. Continui a muoverti, a saltare, a ballare e ad esibirti. Queste persone hanno lavorato sodo per venire al tuo show, quindi assicurati che per loro ogni centesimo sia valso la pena. È la mia missione di vita: onorare ed entusiasmare le persone che vengono a vederci. Parlo per tutta la band quando dico che siamo discepoli dello spettacolo. Una vita dedicata all’arte è una bella vita, e la mia è una vita dedicata al fare arte.

Hai notato i vostri fan e le persone nel pubblico evolversi nel corso degli anni?
La nostra band è una sorta di fenomeno, perché quando guardo il pubblico la prima fila è piena di adolescenti con l’acne che sono sempre stati lì per noi, ma ci sono anche nonni, bambini e persone di ogni età. Adoro questa cosa. Voglio suonare per tutti. Il mio unico desiderio è che si vada sempre più in questa direzione, etnicamente, razzialmente e culturalmente. Ho sempre pensato alla nostra band come ad una capsula del tempo in cui ci troviamo, ma una cosa su cui ho sempre riflettuto fin da bambino è il come connettere tutto questo. Crescendo volevo diventare un trombettista jazz come Louis Armstrong, ma la nostra scuola, come quasi tutte, era divisa tra ragazzini bianchi che ascoltavano i Led Zeppelin, i Kiss e David Bowie, e ragazzini neri a cui piacevano i P-Funk, i Cameo e i Bar-Kays – e io ho sempre amato entrambi. È per questo che ho amato gli Earth, Wind & Fire, perché piacevano a tutti. Questo è il potere della musica che trascende tutte le categorie, le quali spesso sono territoriali e meschine. Vorrei che la nostra musica facesse lo stesso.

Avete pubblicato due album nel giro di sei mesi, entrambi suonano ispirati ed affamati. È così che vi siete sentiti durante il processo creativo?
Eravamo in un momento di grazia, e sentimenti così non puoi di certo controllarli. Quando ci mettiamo in sala e cominciamo a suonare cerchiamo sempre di ipnotizzarci a vicenda con la nostra musica. Abbiamo tutti un ego abbastanza forte e spesso capita ci siano dei battibecchi, ma con gli ultimi due album la maggior parte di questi litigi è stata spazzata via. Ogni singolo giorno era pieno di ottime idee, avevamo accumulato cosi tanta energia che venne fuori tutta di botto come un’esplosione.

Immagino che il ritorno di John abbia avuto un ruolo importante in tutto questo.
L’impatto è stato enorme e profondo. Nel corso degli anni [John, n.d.t.] ci ha lasciato ed è ritornato più volte, ma quello che è sempre rimasto è stato quel linguaggio che abbiamo costruito insieme e che sappiamo parlare soltanto con lui. La band esisteva molto prima dell’arrivo di John, ma quello che abbiamo fatto con lui è davvero entusiasmante per me. Durante questo processo creativo [per UL e ROTDC, n.d.r] John era diventato meticoloso a livelli estremi, studiava e ripeteva ogni singolo riff, ogni singola idea finché non ne usciva fuori qualcosa di soddisfacente. Il suo ritorno è stato un vero e proprio vortice di energia, lo amo tantissimo.

Flea e John Frusciante.

Tu ed Anthony siete amici da una vita ed avete dato inizio alla band ai tempi delle superiori. Secondo te qual è stata l’evoluzione di Anthony come cantante?
Anthony non si definisce nemmeno un musicista – all’inizio voleva persino che chiamassimo la band ‘Tre Geni e un Idiota’. “Siete voi a creare la musica, io urlo e basta”, diceva. Col tempo non ha fatto altro che migliorarsi. Per me il suo percorso di crescita è stato incredibile, specialmente se consideri che la maggior parte dei cantanti ci nascono con il talento; con lui invece è stato diverso. La band nacque quasi per gioco, e all’improvviso ci ritrovammo a riempire i locali losangelini ed Anthony divenne all’improvviso il frontman di una band di successo. Con il tempo non ha fatto altro che migliorarsi, a livello di tecnica, ritmo e musicalità. All’inizio rappava e basta, era quello il suo stile. Da quando John entrò nel gruppo e portò con se il suo modo di comporre, i suoi ritornelli e le sue melodie, fu allora che Anthony cominciò a seguirlo passo dopo passo, e da allora la nostra musica iniziò ad avere una sorta di struttura ben precisa. Oggi i pezzi che Anthony scrive sono un veicolo per dar sfogo alle sue tonalità, alla sua sensibilità canora e musicale. Sono cosi fiero di lui, della sua dedizione nel corso degli anni. Ha avuto un percorso non convenzionale, diverso da tutti gli altri. Adesso quello che scrive mi ispira tantissimo ed influenza anche il modo in cui suono.

Flea e Anthony Kiedis.